Il rapimento Moro in via Fani – Le vittime della scorta

1978
16 marzo, Roma
Oreste Leonardi, 51 anni, maresciallo Maggiore Aiutante dei Carabinieri
Domenico Ricci, 43 anni, appuntato dei Carabinieri
Giulio Rivera, 23 anni, guardia di Pubblica Sicurezza
Francesco Zizzi, 29 anni, vice brigadiere di Pubblica Sicurezza
Raffaele Iozzino, 25 anni, guardia di Pubblica Sicurezza

Giovedì 16 marzo 1978, a Roma, era previsto il dibattito alla Camera dei deputati e il voto di fiducia per il quarto Governo presieduto da Giulio Andreotti: si trattava di un momento di grande importanza poiché, per la prima volta dal 1947, il PCI avrebbe concorso direttamente alla maggioranza parlamentare che avrebbe sostenuto il nuovo esecutivo. Principale artefice di questa complessa e difficoltosa manovra politica era stato Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana.
Con un faticoso lavoro di mediazione e sintesi politica, Moro, che aveva intrapreso approfonditi colloqui con il segretario comunista Enrico Berlinguer, era riuscito a sviluppare il rapporto politico tra i due maggiori partiti italiani usciti dalle elezioni del 1976, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano. Aldo Moro aveva dovuto superare forti resistenze interne al suo partito e contrasti tra le varie forze politiche: fino alle ultime ore erano sorti nuovi problemi legati alla composizione ministeriale, giudicata insoddisfacente dai comunisti, del nuovo Governo guidato da Giulio Andreotti.
Il 28 febbraio, durante le consultazioni a Montecitorio, Moro espose ai gruppi parlamentari democristiani la sua analisi della situazione, e la sua prognosi. Fu il suo ultimo discorso pubblico. Moro riconobbe che da anni qualcosa s’era guastato nel normale meccanismo della democrazia italiana poiché, dopo le elezioni di due anni prima, erano emersi due vincitori; perciò bisognava approfittare della disponibilità del PCI a «trovare un’area di concordia, un’area di intesa tale da consentire di gestire il Paese finché durano le condizioni difficili alle quali la storia di questi anni ci ha portato».
L’11 marzo Andreotti si recò al Quirinale con la lista dei ministri: in precedenza Berlinguer aveva chiesto che fossero depennati dall’elenco i ministri considerati più anticomunisti e che fosse designato qualche tecnico. All’interno del PCI ci fu chi vide in quell’esecutivo monocolore una provocazione. Giancarlo Pajetta annunciò che non avrebbe partecipato alle votazioni. Tra i pareri di chi voleva si rifiutasse il Governo, e chi voleva lo si accettasse, ne prevalse un terzo: i comunisti avrebbero risolto il dilemma dopo aver ascoltato il discorso di Andreotti alla Camera.
Aldo Moro era inoltre obiettivo, oltre che di attacchi politici, di manovre scandalistiche che miravano a minarne l’autorevolezza. Nel quadro delle indagini sul cosiddetto scandalo Lockheed, era stato ventilato sulla stampa che il famoso «Antelope Cobbler», il misterioso referente politico principale coinvolto nella transazione finanziaria con l’industria aeronautica statunitense, sarebbe potuto essere proprio Moro. Il mattino del 16 marzo 1978 il quotidiano la Repubblica pubblicava in terza pagina un articolo in questo senso con il titolo: Antelope Cobbler? Semplicissimo, è Aldo Moro, altri importanti quotidiani nazionali riportavano le stesse notizie.
La presentazione delle dichiarazioni programmatiche del nuovo governo Andreotti alla Camera dei deputati era stata fissata per le 10:00 del 16 marzo e fin dalle 8:45 gli uomini della scorta di Aldo Moro erano in attesa, fuori dalla sua casa in via del Forte Trionfale 79, che l’uomo politico uscisse dalla propria abitazione per accompagnarlo in Parlamento. Aldo Moro scese qualche minuto prima delle 9:00] e venne accompagnato dal maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi, suo fedele collaboratore da molti anni, all’auto di rappresentanza, una Fiat 130 berlina non blindata, dove si sedette sui sedili posteriori. Subito dopo il piccolo convoglio, l’auto del presidente e quella della scorta, si mise in movimento in direzione di via della Camilluccia. Le auto procedevano a velocità abbastanza sostenuta, mentre l’uomo politico consultava il pacco dei giornali del mattino: prima di raggiungere la Camera dei deputati era prevista l’abituale sosta nella Chiesa di Santa Chiara.
Alle ore 9:00 circa in via Mario Fani, quartiere Trionfale, l’auto con a bordo Aldo Moro e quella della scorta furono bloccate all’incrocio con via Stresa da un gruppo di terroristi che aprirono immediatamente il fuoco, uccisero in pochi secondi i cinque uomini della scorta e sequestrarono Moro. I terroristi ripartirono subito su diverse auto e fecero perdere le loro tracce. In via Fani rimasero la Fiat 130, targata «Roma L59812» su cui viaggiava Moro, con i cadaveri dell’autista, appuntato dei carabinieri Domenico Ricci (43 anni) e del responsabile della sicurezza, maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi (51 anni), e l’Alfa Romeo Alfetta targata «Roma S93393» degli agenti di scorta con a bordo il cadavere della guardia di P.S. Giulio Rivera (23 anni) e il vicebrigadiere di Pubblica sicurezza Francesco Zizzi (29 anni) gravemente ferito ma ancora in vita; riverso supino sul piano stradale, vicino all’auto, rimase anche il corpo della guardia di P.S. Raffaele Iozzino, 24 anni. Davanti alla Fiat 130 rimase un’auto Fiat 128 familiare con targa del corpo diplomatico «CD 19707», ferma all’incrocio e abbandonata dai suoi occupanti.
La prima comunicazione alle forze dell’ordine dei fatti accaduti venne registrata alle 9:03 al 113 che ricevette una telefonata anonima che informava di una sparatoria avvenuta in via Mario Fani; la centrale operativa del 113 provvide quindi ad allertare subito la pattuglia del Commissariato di Monte Mario che era in sosta in via Bitossi. Gli agenti vennero avvertiti che «si sono uditi diversi colpi di arma da fuoco» in via Fani. Dalla documentazione della Questura risulta che già alle 9:05 arrivò la prima comunicazione degli agenti della pattuglia di Monte Mario che, giunti sul posto in via Fani, provvidero ad allontanare la folla che si era radunata, ispezionarono le auto con i colleghi morenti, raccolsero le prime notizie dalle persone presenti e richiesero di «inviare subito le autoambulanze, sono della scorta di Moro e hanno sequestrato l’onorevole» (Sergio Flamigni ritiene errata l’indicazione dell’ora presente nella documentazione della Questura: a suo parere sarebbe stato impossibile per gli agenti dell’autopattuglia in appena due minuti raggiungere via Fani ed espletare il primo sopralluogo. Egli ritiene che l’orario del rapporto nella fretta del momento non venne indicato nell’annotazione e probabilmente venne aggiunto in un secondo momento). Gli agenti riferirono anche che i malviventi si sarebbero allontanati su una Fiat 128 bianca con targa «Roma M53995»; i poliziotti della pattuglia diramarono anche l’informazione che i terroristi sarebbero stati quattro e avrebbero indossato «divise da marinai o da poliziotti».
Nel frattempo, dopo una seconda telefonata anonima, erano state messe in allarme e inviate in via Fani anche le volanti Beta 4, Zara, V12 e SM91: furono informati delle prime notizie la Questura, la Criminalpol, la Squadra mobile, la DIGOS e il Commissariato di Monte Mario. Nei minuti successivi, entro le ore 9:10, venne comunicato alle autoradio delle volanti dalla sala operativa della Questura di ricercare, oltre alla Fiat 128 bianca in cui erano stati segnalati quattro giovani a bordo, anche una auto Fiat 132 blu targata «Roma P79560» e una «moto Honda scura». Alle 9:15 la Questura comunicò la notizia dell’agguato di via Fani alla centrale operativa della Legione dei carabinieri di Roma. Alla stessa ora la centrale operativa registrò anche la comunicazione telefonica di Pino Rauti che, abitando in via Fani, ebbe modo di osservare da una finestra alcune fasi dell’agguato e comunicò subito di aver sentito raffiche di mitra, di aver visto due uomini vestiti da ufficiali dell’aeronautica e di aver osservato allontanarsi una Fiat 132 blu.
(…)
Il numero reale dei componenti del gruppo brigatista in via Fani, la loro identità e la loro dislocazione sul luogo dell’azione sono stati fin dall’inizio elementi fortemente discussi e fonti di grandi diatribe e valutazioni ampiamente discordanti in sede processuale, pubblicistica e storica. I brigatisti, collaboranti o comunque interessati a descrivere i fatti di via Fani, hanno fornito nel corso del tempo informazioni spesso contraddittorie, non del tutto attendibili, e hanno mostrato una notevole reticenza riguardo a questo argomento decisivo.
Inizialmente nessun brigatista direttamente partecipante agli eventi di via Fani collaborò con gli inquirenti e quindi il primo processo sui fatti del sequestro Moro, celebrato tra il 1982 e il 1983, dovette basarsi su elementi indiziari e sulle testimonianze di alcuni collaboratori di giustizia, tra cui Patrizio Peci, che non essendo stati coinvolti attivamente, riferirono solo informazioni apprese in via indiretta. Il primo processo condannò dieci terroristi come responsabili materiali dell’agguato: Lauro Azzolini, Barbara Balzerani, Franco Bonisoli, Adriana Faranda, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari, Mario Moretti, Valerio Morucci, Luca Nicolotti e Bruno Seghetti. Fu Valerio Morucci che, a partire dalla sua testimonianza resa davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta del 1983, iniziò a raccontare dettagliatamente i particolari dell’agguato, pur rifiutandosi inizialmente di fornire i nomi dei partecipanti. In un primo momento disse che i terroristi coinvolti erano stati «poco più di dodici», quindi durante il processo d’appello del 1985 ridusse il numero a nove partecipanti (cifra successivamente confermata da Bonisoli). In quella sede ricostruì le fasi dell’agguato: escluse che Lauro Azzolini, Luca Nicolotti e Adriana Faranda avessero fatto parte del gruppo di via Fani e implicitamente invece confermò che gli altri condannati in primo grado avevano effettivamente concorso al fatto criminale. Le sue affermazioni furono ritenute attendibili dalla Corte d’appello di Roma.
Nel corso degli anni i brigatisti confermarono la presenza di Moretti, Bonisoli, Gallinari, Balzerani, Fiore, Morucci e Seghetti e diedero una loro parziale ricostruzione dei fatti e del ruolo dei principali partecipanti in via Fani. Inoltre Morucci, nel terzo processo sul caso Moro, rivelò indirettamente che anche Alessio Casimirri e Alvaro Lojacono erano stati parte del gruppo con il ruolo di copertura posteriore lungo via Fani.
Nel 1994 Mario Moretti, nel suo libro di memorie, descrisse la presenza di un decimo componente, una donna – identificata in un secondo tempo in Rita Algranati – che avrebbe avvistato per prima le auto del politico democristiano e segnalato l’arrivo del convoglio: infine comparve anche il nome di Raimondo Etro, di cui venne ritenuta probabile la presenza nella zona il 16 marzo con il compito di raccogliere dopo l’agguato le armi utilizzate dal gruppo di fuoco. Tuttavia, sulla base delle risultanze processuali e delle inchieste delle commissioni parlamentari, le versioni dei brigatisti, modificate numerose volte durante gli anni, non sono state ritenute del tutto esaurienti: in questa sede, e anche a livello pubblicistico, si è continuato a ritenere che il numero dei partecipanti in via Fani sia stato più alto.
In particolare, oltre a ipotizzare la presenza di altre persone all’incrocio di via Stresa in appoggio della Balzerani e di un’altra persona già a bordo della Fiat 128 blu su cui sarebbero fuggiti Morucci, Balzerani e Bonisoli, è stato ritenuto soprattutto altamente probabile che altri due terroristi fossero presenti a bordo di una moto Honda, come riferito fin dall’inizio da almeno tre testimoni (tra cui l’ingegnere Alessandro Marini che, a bordo di un motorino all’incrocio di via Fani con via Stresa, avrebbe visto i due sulla moto, ricevendo anche dei colpi di mitra che colpirono il suo parabrezza). Anche l’agente della polizia stradale non in servizio Giovanni Intrevado che, con la sua Fiat 500, venne bloccato all’incrocio di via Stresa da una donna armata di mitra senza poter intervenire, riferì di aver visto una moto di «grossa cilindrata» con due uomini a bordo. La presenza di altri militanti su una moto Honda è invece sempre stata smentita dai brigatisti. Raimondo Etro ha smentito di essere stato uno dei passeggeri della Honda ed ha affermato che Alessio Casimirri lo aveva informato della presenza imprevista di una moto che non aveva nulla a che fare con il commando brigatista.
Inoltre dal racconto di alcuni testimoni, tra cui lo stesso ingegner Marini, e dalle risultanze delle perizie sui cadaveri, in sede processuale si sono raggiunte conclusioni parzialmente discordanti rispetto alla versione dei brigatisti sulla esatta modalità dell’agguato: queste ricostruzioni prevederebbero la presenza di un altro uomo a bordo della Fiat 128 CD accanto a Moretti. Sarebbe stato quest’uomo, secondo la perizia del processo del 1993, che sarebbe sceso dal lato destro della Fiat 128 CD e avrebbe aperto il fuoco dalla destra della strada colpendo subito mortalmente il maresciallo Leonardi. Questa ricostruzione permetterebbe di spiegare le direzioni dei colpi rilevate dalle perizie sui corpi del maresciallo Leonardi, 9 colpi rinvenuti con orientamento da destra a sinistra, dell’agente Rivera, 5 colpi da destra a sinistra, e forse dell’agente Iozzino e del vicebrigadiere Zizzi, su cui le perizie sono più incerte. Sull’identità di questo ipotetico brigatista in azione sul lato destro della strada non si è giunti a conclusioni realmente attendibili, anche se lo scrittore Manlio Castronuovo ritiene che fosse Riccardo Dura, brigatista genovese particolarmente determinato, morto nel 1980 nello scontro di via Fracchia a Genova.
I brigatisti hanno sempre escluso la presenza di loro militanti sul lato destro della strada e hanno evidenziato che essi aprirono il fuoco solo dalla sinistra per evitare gravi rischi di incidenti fortuiti con la possibilità di colpirsi tra loro per errore. In effetti deve essere rilevato che la maggior parte dei testimoni oculari riferirono soltanto di aver visto un numero variabile di «avieri» sparare dal lato sinistro della strada contro le auto ferme. Riguardo alla eventuale presenza di Riccardo Dura in via Fani, Valerio Morucci la escluse decisamente in sede processuale rivelando che il brigatista genovese effettivamente era stato in un primo tempo compreso nel gruppo con il ruolo di aiutare Barbara Balzerani all’incrocio di via Stresa, ed era anche giunto a Roma dove abitava nell’appartamento di quest’ultima, ma alcuni giorni prima dell’agguato si decise di rinunciare alla sua partecipazione.

Fonte
Wikipedia
https://it.wikipedia.org/wiki/Agguato_di_via_Fani

Approfondimenti
Ugo Maria Tassinari – Intervista a Mario Moretti
https://www.ugomariatassinari.it/sequestro-moro-1/
https://www.ugomariatassinari.it/via-fani/

Video
Atlantide/La7
Caso Moro, l’attentato di Via Fani raccontato da Andrea Purgatori
Polizia di Stato
Strage di via Fani: ecco come è stata massacrata la scortaIntervista ai familiari delle vittime di via Fani | Troppo spesso sono stati accomunati sotto le parole “scorta di Aldo Moro” e “martiri di via Fani”. In realtà quelle 5 persone morte esattamente 40 anni… | By Polizia di Stato | Facebook
Archivio Luce Cinecittà
https://www.youtube.com/watch?v=M9ya8Dn0VO8


da Antimafia 2000


da Wikipedia


da Ugo Maria Tassinari