Strage 40 anni dopo: le vittime Zambarda viveva sul lago di Garda, era un militante comunista convinto. Aveva lavorato duro nei cantieri per mantenere il figli e la moglie malata
Il triste destino di Vittorio una vita di lavoro e sofferenza
In pensione da due giorni, rimase ferito e morì il 16 giugno L’amore per Edera Dopo aver partorito la secondogenita, la donna ebbe un tracollo mentalee finì in ospedale psichiatrico
Edera Tei nacque a Mantova nel 1921, da una famiglia che commerciava in pollame. Nel febbraio del 1945 si sposò ed ebbe due figli: Bernardo (nato nel 1946, chiamato così in ricordo del cognato, morto in Russia) e Piera. Poi, all’improvviso, otto giorni dopo la nascita della secondogenita, la vita si nascose, e come se qualcuno avesse spento un interruttore, lei restò sola a brancolare. Non aveva nemmeno trent’anni, e cominciarono quei vent’anni: settemilatrecento giorni che non sarebbero mai esistiti. Dal 1950 al 1970, solo buio, vaghe nebbie tra le quali è difficile immaginare cosa abbia intravisto. Il presente? Il passato? Ospedale psichiatrico di Brescia, e poi quello di Castiglione delle Stiviere. Ogni quindici giorni, va a trovarla un uomo in motoretta. Non è mai mancato, nemmeno una volta. Lei lo guarda, non sa cosa dirgli, eppure lui va avanti imperterrito, per vent’anni, e non rinuncia: settemilatrecento giorni in cui non smette di accarezzare un fantasma. Lei, il fantasma, rammentava forse il suo nome? Le dicevano qualcosa il volto di quell’uomo, quella bocca sottile? Quegli occhi tondi e piccoli come capocchie, non le ricordavano nulla?
Fu proprio per un’imperfezione a un occhio, che quell’uomo in motoretta - all’anagrafe Vittorio Zambarda, nato a Portese il 26 maggio 1914 - non fu chiamato per il servizio di leva. Tre fratelli e una sorella, aveva studiato fino alla quarta elementare e lavorava la terra a Bocca di Croce, allora comune di Campoverde. In seguito, per necessità economiche, si impiegò come cantiniere da Nando. I tedeschi e gli ufficiali della Decima Mas andavano a pranzo proprio lì. Un giorno rubò loro la benzina e nascose la tanica nel pollaio. Quelli la ritrovarono immediatamente e gli puntarono il mitra in faccia. Lo guardarono, e lui trattenne il fiato. Non gli fecero nulla, però decisero che non potevano lasciare impunito il gesto fin tropo audace: così, quella sera, per una settimana, gli imposero di andare a dormire nelle prigioni. Ma non fu l’unica volta che Vittorio la fece franca. Suo fratello Giovanni, cinque anni più piccolo di lui, non voleva partire militare. Una sera i fascisti rastrellarono i renitenti alla leva e Giovanni fu costretto a fuggire, scalzo, e a scappare verso Corna Blacca. Vittorio, con la bici, pedalando lungo i greti, andava a rifocillarlo. Poi la guerra finì, nel 1945 conobbe Edera e la sposò. L’avrà conquistata con la parlantina? Segretario della sezione Pci di Campoverde, in giro lo chiamavano «l’avvocato» per via dell’instancabile eloquio. Ma otto giorni dopo la nascita della seconda figlia, il buio si porta via sua moglie. Vittorio si ritrova con un figlio di 4 anni e una bambina di otto giorni. Non sa cosa fare, poi decide di affidare la femmina ai parenti di Edera e di mandare il maschio in orfanatrofio a Salò. Bernardo, quei giorni, li ricorda così: «Eravamo in 19, con una sola monaca. Il riscaldamento? Nemmeno a parlarne. Ci sono stato per sette anni, prima al Tosi-Gentili di Salò, poi a Palazzolo sull’Oglio, fino al 1960. Vedevo mio padre in parlatorio, ogni quindici giorni per mezz’ora. A Palazzolo mi portava fuori a pranzo. Era un povero tra i poveri, nella vita ha solo sofferto. La mia retta costava 6000 lire al mese. All’epoca lui ne guadagnava 35.000».
Trentasei anni, manovale edile, lavorava per Dolcini. Per le imprese Ardesi, anni più tardi, sperando di arrotondare, avrebbe fatto anche il custode. Dormiva in cantiere, dentro una baracca di legno: una branda più una stufa. Chissà cosa avrà pensato, Vittorio, durante quelle sere desolate. Chissà quali segrete interrogazioni, e quante volte avrà sentito le forze venir meno. Eppure stringe i denti. Nel 1954 compra un Motom e continua ad andare a trovare i figli. Bernardo ricorda: «D’inverno aveva sempre la calabrösa sui baffi». Fa le prime vacanze della sua vita a Sabbioneta, a Ferragosto, presso i fratelli dei genitori della moglie. Il figlio seduto di dietro, che si regge ai suoi fianchi. A Sabbioneta Bernardo scopre un mondo arcaico, con la moglie che sta seduta a tavola un metro dietro il marito e dirige le nuore che servono gli uomini; un mondo in cui ci si sveglia alle 4 e si mangiano tagliatelle col vino nel brodo, e di sera salame con frittata di rane. Poi vola via anche l’estate del ‘54. L’esistenza quotidiana, spietata salita, impone aspre pedalate. Ma passano gli anni, e inaspettatamente Edera sembra migliorare.
Qualche spiraglio illumina la sua mente, così, la domenica, lui ottiene il permesso di portarla in trattoria. Chissà cosa si dicevano, durante quei pranzi? Le cose sembrano andare per il verso giusto e finalmente arriva anche la pensione. Il 26 maggio del 1974 Vittorio va dal datore di lavoro e dice: «Basta, ho sgobbato abbastanza». Deve fare alcune pratiche, così il 28 maggio prende la corriera per Brescia. Ma non sa che c’è lo sciopero. Scopre che gli uffici riaprono nel pomeriggio, si ferma e partecipa alla manifestazione. Piove, non ha l’ombrello, va sotto il portico. Sono le sette di quella stessa sera quando il figlio Bernardo, rincasando, viene a sapere che il padre è in ospedale. «Sono corso subito e... Non c’era spazio tra un letto e l’altro, una cosa penosa. Comunque era lucido, aveva solo perso una falange. Era sordo per lo scoppio, la gamba piena di schegge. Ma dopo tre giorni, la ferita alla mano peggiora. Al sesto giorno, lo portano in cardiologia. Ricordo che c’erano i Mondiali. Un po’ guardavo la partita, un po’ guardavo lui». 16 giugno 1974: Vittorio Zambarda muore a causa di un’embolia. Per i suoi funerali, convergeranno a Salò migliaia di persone. Quel che resta di lui, oltre al ricordo e l’intestazione di una piccola piazza, è una moneta: cento lire che teneva nel borsellino, ammaccate dalle schegge sprigionate dall’esplosione. Edera Tei, mai autosufficiente, morirà in casa di riposo, a Salò, nel 1993.
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