Milano, 22 maggio 2014 - 13:04

Giulietta la «rossa», la pasionaria che stava dalla parte dei ragazzi

Gli ex studenti: «Eravamo pulcini, lei ci ha reso consapevoli»

 

Giulietta Banzi Bazoli
Giulietta Banzi Bazoli

L’1 maggio 1974 Giulietta Banzi, giovane professoressa di francese del liceo Arnaldo, era in piazza per la festa dei lavoratori. Aveva portato con sé i tre figli Alfredo, Guido e Beatrice, di quattro anni e mezzo, sei, e nove. Una studentessa si intrufolò tra le bandiere, e lei, sorridente tra i garofani, serena e dolcissima in mezzo ai suoi bambini, la salutò col pugno chiuso. Un’immagine, questa, in cui sarebbe bello pensarla per sempre. Ma si sa, i contorni sfumano, e il tempo vince sempre.
A distanza di anni da quel giorno e da quel mese terribile, il figlio Alfredo racconterà: «Da piccolo avevo il ricordo della sua voce. Ma avevo anche una paura terribile: quella di perdere quel ricordo, cosa che poi effettivamente è avvenuta». Già. Chissà che voce aveva, Giulietta. Sonora o sottile? Squillante o roca? Quale delle sue caratteristiche era riflessa nel tono con cui pronunciava le parole, o si arrabbiava, o come ricordano alcune alunne, dava del «fascistello» a uno studente logorroico e dalle idee liberali, ridendone con lui? Il tempo vince sempre e ormai è impossibile dirlo. Ma tutti, una cosa, la ricordano: il suo viso severo. E poi lo sguardo limpido, disarmante, seppure a tratti rabbuiato. Cosa si agitava nei pensieri di questa donna coerente fino alle estreme conseguenze, vicina ad Avanguardia operaia e dirigente-fondatrice per la Cgil scuola, che nel 1964 aveva sposato Luigi Bazoli, assessore comunale democristiano il quale, il 28 maggio 1974, si trovava a pochi metri dalla piazza quando l’esplosione falciò la vita di sua moglie e fece grondare sangue e tormenti sulla sua?

Chi era

Giulietta aveva 34 anni, aveva perso il padre da piccola e la madre l’aveva allevata in modo ruvido, quasi drastico. Luigi, invece, aveva un nonno che aveva fondato il Partito popolare e un padre iscritto alla Dc. La consapevolezza lo porterà a dire: «Io facevo parte di tutto ciò che lei combatteva. Sono stati, quegli ultimi, tre anni molto difficili». Difficoltà che non gli avrebbero tuttavia impedito di compiere un gesto d’amore, profondo, pieno di rispetto e di commovente decoro. «Il giorno dei funerali, dietro al feretro, dovevano esserci solo i parenti. Ma io credo che esistano due tipi di parentele, quella del sangue e quella delle idee. Così ho voluto che venissero i suoi compagni, e che portassero una bandiera rossa». Anche Giulietta era soprannominata così: «la rossa». Rossa era la Renault 5 che guidava, rossa l’anima di questa giovane insegnante in jeans e maglione, che si sedeva più volentieri sul calorifero che in cattedra.

Il ricordo

I ragazzi la ricordano così: «Ci dava del lei, non il tu sprezzante di altri professori. Lo faceva per rimarcare il suo rispetto, e non si stancava mai di parlare con noi. Poi, nel corso della lezione, quando ci infervoravamo, finiva sempre col darci del tu». Le sue virtù maieutiche vennero omaggiate da una ginnasiale, che all’epoca metaforizzò: «Siamo arrivati qui come pulcini nella stoppa. Lei è stata la scintilla fondamentale per essere consapevoli». In effetti, quella professoressa convinta che l’unico vero compito di un uomo fosse far maturare le sue idee, si darà da fare perché anche gli studenti maturassero le proprie. Rivoluzionerà il tipo di studio, oltre che le modalità di insegnamento, organizzando gruppi di lavoro e avviando discussioni. Diceva che «sapere una lingua vuol dire conoscere un popolo». Diceva: «È importante la grammatica, ma soprattutto sapere cosa è stata la Rivoluzione francese». Ci credeva, Giulietta. E credeva che l’importante è «sapere da che parte si sta». Lei fu sempre da una parte sola, anche quando starci aveva significato rinunciare a qualcosa, per esempio all’eredità di una vecchia casa di campagna. Ma il punto era questo: il possesso non era compatibile con le sue opinioni, con le idee che professava, addirittura diceva al marito che voleva andarsene a vivere in periferia per stare a diretto contatto coi problemi in nome dei quali conduceva le sue battaglie.
«Si batté moltissimo per far promuovere una ragazza figlia di un operaio», ricordano due sue studentesse, «e per questo si era inimicata tutti gli insegnati vecchio stile, perché era dalla parte dei ragazzi».

Prima della bomba

Quel 28 maggio era ancora agitata, la professoressa che stava dalla parte dei ragazzi. Era tornata dal congresso nazionale della Cgil a Roma e con alcuni amici si sarebbe sfogata così: «Gli alti papaveri hanno già deciso tutto, altro che delegati». Cose che lei faceva fatica a tollerare, credendoci come ci credeva, fin nella carne. A poche ore dalla sua morte, uno studente dell’Arnaldo, in assemblea, dirà: «Di fronte al tentativo di mistificare i connotati politici di questi compagni, facendoli passare per individui casualmente coinvolti nella strage, o semplici passanti, è necessario testimoniare l’impegno politico che li ha portati al sacrificio».
Quella mattina del 28 maggio 1974 alle 10.12, mentre un cestino della spazzatura squarcia la storia di un intero Paese eruttando otto incandescenti sentenze di morte, Giulietta si trova accanto a Luigi Pinto. Chissà se è lecito immaginare che gli stesse confidando la delusione per l’assemblea, o stesse aspettando che Clementina le si rivolgesse, per raccontare tutto anche a lei. Ma fu un momento: un momento prima lei era lì, al riparo dalla pioggia, e poco dopo il marito Luigi sentirà uno scoppio terribile e vedrà «due cadaveri immersi nel sangue». Giulietta era uno di quei due corpi senza vita - riversa a terra, esanime, ma col viso stranamente pulito e risparmiato dalla macelleria esplosiva. Poche ore prima aveva acceso la sua Renault 5 rossa e, animata dal proposito di esserci perché «bisogna sapere da che parte di sta», aveva guidato ignara verso la manifestazione. Ora, di lei, resta questa frase. Restano una mattina di pioggia, una giustizia che tarda troppo ad arrivare, e vite che non sono state più le stesse. E l’immagine di Alfredo, quattro anni e mezzo, che fino all’ultimo momento, piagnucolando sulla porta, le aveva detto: «Non andare, non andare».

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